Sermone pontificale del Card. G. Paleotti
4 OTTOBRE 1584
Sermone Pontificale nel giorno di S. Petronio, nella insigne Chiesa dello stesso santo Vescovo e Patrono della Città di Bologna
“Io sono il buon Pastore e conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me” (S. Giov., cap. X)
Questo giorno lietissimo e tanto celebre per il nostro popolo Bolognese, che è sacro e solenne al beato Petronio padre, pastore, e patrono nostro, giustamente esige da noi, Dilettissimi, quegli impegni di santa venerazione e gli uffici della vera religione, che speriamo più graditi alla sua bontà e che più validamente confermeranno la sua grazia e il patrocinio verso di noi. Un opportuno argomento ci offre quello che si legge nell’odierno Vangelo dell’ufficio del buon pastore.
Benché infatti Cristo Signore nostro abbia pronunciato quelle parole riguardo a se stesso, dal momento tuttavia che egli si è proposto a tutti come esempio da imitare, e ogni cosa da lui trasmessa sia stata scritta per la nostra istruzione; non c’è dubbio che questi uffici del buon pastore, che con ordine mirabile sono qui descritti, egli abbia voluto fossero prescritti anche agli altri pastori, affinché da essi tutti i pastori imparassero la vera ragione e la disciplina del pascere. Ed è conseguente che avendola mirabilmente e felicemente espressa nell’amministrare un tempo questa Città il santo nostro Vescovo Petronio, noi attentissimi figli a camminare sulle sue orme paterne ci impegniamo a conformare i nostri costumi ai suoi esempi, e in qualche modo, per quanto è consentito alla nostra infermità, a riprodurre in parte la stessa immagine del pastore.
Per potere conseguire questo (scopo) in modo più chiaro e più facile, ci sforzeremo di commentare distintamente le parole stesse del Vangelo, che sono pertinenti a ciò, dal momento che, per la mirabile brevità delle parole, e per la fecondità dei sensi, comprendono quelle quattro cause che i dotti sono soliti, nel trattare con cura qualche argomento, osservare con metodo accurato.
Infatti in primo luogo qui si descrive la persona il cui ufficio è quello di pascere, dicendo: “Io sono il pastore buono”; il che si riferisce proprio alla causa che chiamano efficiente. Indica sia la ragione del pascere, che in questo compito deve compiere, dal momento che dice: “Conosco”; il che riguarda la causa formale. In terzo luogo, designa la stessa materia, nella quale si esercita l’ufficio di pastore, dicendo: “Le mie pecore”; ciò che suole essere chiamata causa materiale. Infine dichiara per quale scopo sia stato istituito questo ufficio del pascere, quando soggiunge: “E le mie (pecore) conoscono me”; questa si chiama causa finale, perché conosciamo che il fine del pastore cristiano deve tendere a che aderiamo a Dio e serviamo a lui, e godiamo della sua gloria celeste. Ciò che S. Giovanni dice: “Questa è la vita eterna, che conoscano te Dio, ecc.”.
Perciò partendo dalla prima, che riguarda la causa efficiente, mentre dice: “Io sono il pastore buono”, occorre anzitutto spiegare quello che sia contenuto sotto il nome di pastore. In realtà è molteplice il suo senso: il primo è proprio e notissimo a tutti, cioè di coloro che esercitano il ministero del pascere le pecore; il secondo invece traslato, riguarda coloro che adempiono il compito di governare gli altri. E questo anche in modo duplice: infatti come nel diritto pontificio alcuni si chiamano divenuti Legati cioè mandati, che cioè sono inviati dai sommi Pontefici per gravi affari, ad un luogo determinato e per un certo, tempo; così altri si dicono Legati nati, che hanno una qualche legazione innata e connaturale attribuita a qualche dignità, e primariamente istituita dalla legge, non da alcun Principe, o alcun uomo.
Così si denomina duplice questo genere di pastori: alcuni che sono divenuti e esercitano una giurisdizione sia spirituale sia temporale, o ambedue sugli altri; come è il Sommo Pontefice pastore universale della Chiesa, non nato ma fatto dal suffragio dei Cardinali. Gli Arcivescovi, i Vescovi, sono tutti fatti dal Sommo Pontefice; i Parroci che esercitano la cura delle anime, sono fatti anche loro pastori per concorso e approvazione dell’Ordinario; i Re, i Principi, i Magistrati, sono anch’essi fatti pastori, per cui in antico erano chiamati in greco poiménes. Così oggi per una ragione non dissimile, gli Abbati, i Prepositi dei monasteri, i Padri di famiglia, i dottori che pubblicamente insegnano, i Capi dei Sodalizi, i Maestri delle Arti, e altri dello stesso genere sono detti pastori fatti, perché assumendo quell’incarico, si obbligano a governare fedelmente, cioè ad istruire coloro che sono loro soggetti, dei quali noi al presente non parleremo, dal momento che frequenti concioni sui loro uffici siamo soliti udire pubblicamente.
Altri sono Pastori che chiamiamo nati, perché dallo stesso Dio, senza alcun intervento di alcun ministero degli uomini sono stati un tempo istituiti, sull’esempio dei Legati, che sopra abbiamo ricordato. Infatti ognuno di noi, quando primariamente è stato creato in questa luce, e ha conseguito questa eccellentissima dignità, per cui diventa uomo creato ad immagine e somiglianza di Dio, per il fatto stesso gli si aggiunge quest’altra ampiezza pastorale, che è insita e innata alla dignità e alla natura dell’uomo e impiantata dentro alle radici; così che se l’uno e l’altro ufficio di Pastore sia da conferirsi fra di essi, ciascuno veda apertamente che l’una ragione del pascere è generata intrinsecamente, e l’altra promossa dall’esterno, e l’altra derivata dalla natura e accompagnante perpetuamente la vita dell’uomo, l’altra, come dicono, è accidentale, incerta, e soggetta alla mutazione e alla vicissitudine del tempo.
E se chiedi chi sia finalmente questo pastore, e chi sia il gregge, che gli è affidato da pascere, rispondiamo: Poiché nell’uomo l’anima richiama qualcosa di regale e divino, non si deve pensare che sia abbandonata sola e nuda nel corpo umano, non associata ad alcun contorno, non circondata da alcuna famiglia, e non rafforzata da alcun presidio; come se qualcuno vedesse un Re seduto sul trono regale, risplendente per la corona, e insigne per lo scettro, ma privo di servi senza essere contornato da alcun seguace, e privato di ogni famiglia, questo certamente non sarebbe confacente alla dignità regale. La celeste sapienza perciò, che ha impresso divinamente l’anima all’uomo, gli associò anche una grande famiglia, o piuttosto una milizia, del cui presidio usufruisca. Perciò dal momento che l’apice nell’anima dell’uomo è la ragione, questa ha la funzione al posto del pastore, ad essa appartiene il diritto di reggere, di governare, di imporre, di correggere, e di compiere tutte le altre cose che sono contenute nella voce del pascere.
E di nuovo se chiedi quali siano le cose che hanno bisogno di essere governate, rispondiamo che sono moltissime e innumerevoli. Il triplice gregge infatti è affidato a ciascuno di noi da custodire, distinto per quei tre generi di beni, che si chiamano beni dell’anima, beni del corpo e beni esterni.
Due greggi di questi sono inclusi nell’ovile del nostro corpo, il terzo vaga fuori dell’ovile, ma non lontano dagli occhi del pastore. La ragione stessa, come dicevamo, tenendo il timone e gestendo il comando, presiede a tutta questa famiglia, e deve vigilare con la custodia su questo gregge assiduo, che è vario, molteplice, instabile, difficile, sconsiderato e caparbio.
Perciò Basilio in una omelia (Attende tibi) dice: “Altro siamo noi, altro sono le cose nostre, altro le cose fuori di noi: noi siamo (per modo di dire) ciò che consta di ragione, e della nostra intelligenza, altre cose sono sia dell’anima sia del corpo, che ci sono state affidate, come gli affetti, le gioie, le tristezze, il timore, la speranza, la potenza del desiderare, la forza di adirarsi, i sensi esterni e interni: fuori di noi vi sono altre cose che poi si sono aggiunte, come le ricchezze, le dignità, le amicizie, i beni, la scienza, le arti. Vedete, dilettissimi, quanto stoltamente si ingannano coloro che ritengono che la gran parte degli uomini sia libera da ogni incarico, dal pensiero di un’occupazione e di governare?
Ma se a qualcuno sembrasse assurdo che colui fosse lo stesso uomo che pasce, e che viene pascolato; dal momento che fra l’agente e il paziente dovrebbe esservi differenza, come fra l’amante e colui che è amato?
A costui si deve rispondere che l’uomo è una realtà composta di una duplice sostanza, dell’anima e del corpo, dello spirito e della carne. E poiché da questi sorgono azioni diverse, questi diversi principi distinguono in qualche modo come diversi agenti l’uomo concreto nel duplice uomo (cfr. S. Th II II, 58, art 2): di cui l’uno è chiamato interiore dall’Apostolo, che si innesta nella ragione, l’altro esteriore, che appartiene al senso e al corpo. E perciò scrivendo ai Romani (Rm 7,22) diceva: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio secondo l’uomo interiore”; e ai Corinti diceva: “Anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2 Cor 4,16), da ciò vediamo che l’amore, benché sembri aver rapporto ad un altro, tuttavia propriamente abbraccia anche noi stessi, anzi ci è stato comandato: “Ama il prossimo come te stesso”.
Ugualmente nella misericordia è stato risposto dal sapiente (Eccli 30, 24): “Abbi misericordia della tua anima piacendo a Dio”; lo stesso troviamo nella giustizia il cui compito è di attribuire ciò che si deve a Dio, al prossimo, e a noi. Ora tutte queste cose sia che siano usate in modo metaforico, sia nel più ampio modo di dire, tuttavia emanano dalla stessa ragione, cioè che l’uomo si dice duplice, come scrive S. Basilio, e i sacri Teologi denominarono una parte superiore e una parte inferiore (S. Th. I, q. 79, art. 9).
Ma non è sufficiente sapere che noi siamo pastori, se non comprendiamo anche che dobbiamo essere buoni pastori; per questo infatti dice il Vangelo: “Io sono il buon pastore”; e d’altro lato il profeta Zaccaria: “Guai al pastore, che per l’idoloa bbandona il gregge” (Zac 11,17): chiama il pastore e insieme l’idolo; perché? Perché molti sono pastori di nome, ma all’interno sono veramente idoli e simulacri muti; così come in Egitto erano stati costruiti magnifici templi ed elevati in altezza, ornati di preziose colonne, ed edificati con arte mirabile, così che gli uomini guardandoli dall’esterno fossero indotti in ammirazione, poiché se qualcuno entrava dentro di essi, trovava poi un topo, o un gatto, o un coccodrillo, o una scimmia, oppure un cane su un eccelso altare che era posto a spettacolo e a venerazione per tutti. Cosa di più stolto e più simile ad un mostro? Così molti uomini insuperbiti dal fasto, risplendono in gran lusso, ad essi una moltitudine sta intorno:: pensi che essi siano uomini seri e rispettabili, e buoni pastori, che tengono in mano il timone; ma se scruti dentro la loro interiorità, non troverai se non un idolo manufatto: e un simulacro muto non sollecito di alcuna cosa e un mostro di natura.
Ugualmente nella misericordia è stato risposto dal sapiente (Eccli 30, 24): “Abbi misericordia della tua anima piacendo a Dio”; lo stesso troviamo nella giustizia il cui compito è di attribuire ciò che si deve a Dio, al prossimo, e a noi. Ora tutte queste cose sia che siano usate in modo metaforico, sia nel più ampio modo di dire, tuttavia emanano dalla stessa ragione, cioè che l’uomo si dice duplice, come scrive S. Basilio, e i sacri Teologi denominarono una parte superiore e una parte inferiore (S. Th. I, q. 79, art. 9).
Ma non è sufficiente sapere che noi siamo pastori, se non comprendiamo anche che dobbiamo essere buoni pastori; per questo infatti dice il Vangelo: “Io sono il buon pastore”; e d’altro lato il profeta Zaccaria: “Guai al pastore, che per l’idoloa bbandona il gregge” (Zac 11,17): chiama il pastore e insieme l’idolo; perché? Perché molti sono pastori di nome, ma all’interno sono veramente idoli e simulacri muti; così come in Egitto erano stati costruiti magnifici templi ed elevati in altezza, ornati di preziose colonne, ed edificati con arte mirabile, così che gli uomini guardandoli dall’esterno fossero indotti in ammirazione, poiché se qualcuno entrava dentro di essi, trovava poi un topo, o un gatto, o un coccodrillo, o una scimmia, oppure un cane su un eccelso altare che era posto a spettacolo e a venerazione per tutti. Cosa di più stolto e più simile ad un mostro? Così molti uomini insuperbiti dal fasto, risplendono in gran lusso, ad essi una moltitudine sta intorno:: pensi che essi siano uomini seri e rispettabili, e buoni pastori, che tengono in mano il timone; ma se scruti dentro la loro interiorità, non troverai se non un idolo manufatto: e un simulacro muto non sollecito di alcuna cosa e un mostro di natura.
Segue il verbo: “Conosco”, che come sopra abbiamo detto, indica a noi la ragione del pascere, e si riferisce alla causa formale. Il che si può assumere in duplice modo: nel primo modo significa la sola conoscenza che riguarda il solo intelletto; nel secondo modo una conoscenza affettiva che comprende la volontà e l’amore; si deve ora vedere di quale conoscenza parli qui il Signore.
La conoscenza, in quanto riguarda il solo intelletto, sembra essere una percezione di qualche oggetto, che si possa apprendere; e tale conoscenza è triplice: animale, razionale, e soprannaturale. È animale quella che si percepisce con il senso; razionale, quella che conseguiamo con la ragione e l’intelligenza. È soprannaturale poi quella che per una luce di Dio celeste e infusa ci viene comunicata per mezzo della fede, della quale nel Vangelo il Signore dice: “Beato sei Simone figlio di Giona, perché la carne e il sangue non te l’ha rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Mt 16,17). E S. Pietro Apostolo: “Non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini di Dio” (2 Pt 1,21).
Ezechiele profeta (47,3-4) ci significò un triplice grado di comprensione, quando descrive colui che per guadare il fiume, sentì l’acqua giungere alla caviglia, e ulteriormente avanzando, la vide salire fino al ginocchio, ma non arrestandosi là, procedendo più oltre, giunse fino ai fianchi, cosi che non poteva più oltre essere attraversato il fiume. Lo stesso ha indicato a noi il Salvatore nella parabola dell’eunuco in Matteo (19,12); dicendo infatti: “Vi sono eunuchi che sono nati così dal ventre della madre”, mostra la conoscenza naturale; “vi sono eunuchi che si sono fatti tali per il regno dei cieli”: questo riguarda la conoscenza celeste, come ha dichiarato S. Gio. Crisostomo (Hom. 63 in S. Matth.).
Veniamo ora all’altra conoscenza affettiva che comprende la volontà, che abbiamo detto essere necessaria al buon pastore, per il fatto che ogni perfezione umana si fonda come su due supremi cardini, cioè sapere e volere. E nessuno si stupisca che sembri venga omesso un terzo, cioè il potere; infatti chi vuole pienamente, può anche, o se sia impedito, la sua volontà sta in luogo del fatto. Così i Giurisconsulti nelle condizioni arbitrarie dicono: “Quando sia sopravvenuto un impedimento, ad adempire ciò che desideravi, allora si deve ritenere che venga soddisfatta la condizione. (Decr. L del Diritto civile, ff. sulla regola del diritto).
Ma piuttosto si deve ricercare perché deve accompagnarsi la mozione della volontà, ossia l’approvazione alla conoscenza dell’intelletto, che già è preceduto.
La risposta chiara è che l’intelletto è come il mezzo, e la volontà come il fine, e perciò è poco lavorare nei mezzi se non giungiamo al fine. Come l’Architetto, che fosse tutto nella materia, e nel raccogliere e preparare i cementi, e non edificasse mai l’edificio, certamente sarebbe da deridere.
Così molti oggi stoltamente cadono, che si dedicano agli studi letterari soltanto per sapere, e ivi si arrestano, e agiscono a rovescio, prendendo il mezzo per il fine. Infatti i cristiani non leggono i libri solo per conoscere quello che in essi è contenuto, come le storie dei Greci e dei Romani, ma per aderire alle cose che leggono, e per coltivare con la verità le virtù comprese nei libri e respingere lontano i vizi. Perciò S. Francesco, di cui oggi veneriamo anche la memoria, soleva dire: “Tanto so quanto opero”. Quindi concludiamo che non è sufficiente al buon pastore conoscere la cosa con l’acume dell’intelletto, ma anche volerla utilmente seguire.
Così molti oggi stoltamente cadono, che si dedicano agli studi letterari soltanto per sapere, e ivi si arrestano, e agiscono a rovescio, prendendo il mezzo per il fine. Infatti i cristiani non leggono i libri solo per conoscere quello che in essi è contenuto, come le storie dei Greci e dei Romani, ma per aderire alle cose che leggono, e per coltivare con la verità le virtù comprese nei libri e respingere lontano i vizi. Perciò S. Francesco, di cui oggi veneriamo anche la memoria, soleva dire: “Tanto so quanto opero”. Quindi concludiamo che non è sufficiente al buon pastore conoscere la cosa con l’acume dell’intelletto, ma anche volerla utilmente seguire.
Nota: questa omelia non fa alcun cenno alla biografia di S. Petronio e si attiene soltanto al commento biblico del testo giovanneo del buon pastore; dall’inventario delle prediche del Card. Paleotti facenti parte dell’Archivio Isolani andato perduto risulta che nel cartone F 16 sono enumerati ben 9 discorsi “infesto S. Petronii” (cfr. P. Prodi, Il Cardinale Gabriele Paleotti, Roma 1959, II, p. 81). L’omelia però riflette la sua coerenza di “non voler sovrapporre alcuna sovrastruttura alla Bibbia; in lui si sente ancora operante la critica mossa dall’umanesimo cristiano e da Erasmo alla scolastica e alla predicazione medievale: la parola di Dio ha tanta forza. da penetrare nel cuore dell’uomo senza alcun bisogno di aiuti e puntelli estranei” (cfr. Prodi, o.c., p. 105). L’occasione di smascherare l’ipocrisia dell’apparenza era un tema preferito della predicazione in occasione della solennità di S. Petronio alla presenza dei magistrati e di tutte le autorità; ma lo stato disastroso di queste prediche non permette che di trarre la conclusione che la distinzione fra pastori naturali, cioè tutti gli uomini che hanno la responsabilità della loro anima, e pastori “accidentali”, cioè i vescovi e i curati, ha un grande valore per la affermazione del sacerdozio universale dei fedeli arrivando a dire che tutti i cristiani sono non solo sacerdoti ma anche tutti pastori (cfr. Prodi, o.c., p. 119).